II. La Sinopsi | IV. Il De constantia |
III
IL «DE UNO»
Nel proloquium, nei duecentoventidue capitoli, preceduti da un principium[1], e nella conclusio il Vico, conforme il suo disegno[2], avrebbe dovuto svolgere le prime due parti della prolusione del 1719, ossia dare alla trattazione carattere esclusivamente filosofico. Ma le mirabili «discoverte» compiute nel campo della filosofia e della storia avevano prodotto una tal rivoluzione nella sua mente e accentuato siffattamente in questa, insieme con le sue grandi qualitá positive, anche l’antimetodicitá, l’antididascalismo e il geniale confusionismo[3], e, d’altra parte, il numero stesso di quelle «discoverte» rendeva così diffícile dominar la materia a chi si facesse a trattarla per la prima volta o per una delle prime volte, che non è da far le maraviglie se capitasse sovente all’autore di anticipare in questo primo libro dimostrazioni e conclusioni storiche che avrebbero trovato luogo piú acconcio nella seconda parte del secondo libro, ove, del resto, le si incontra una volta ancora con piú ampi sviluppi e talora notevoli varianti di pensiero.
I duecentoventidue capitoli sono contradistinti da semplici numeri ordinali, non posti nemmeno in mezzo alla pagina, ma, per economia di spazio (tutto fa presumere che la spesa della stampa cadesse a esclusivo carico dell’autore), preposti alla prima riga di ciascuno. Ciò non ostante e malgrado la brevitá eccessiva di parecchi (qualcuno non supera la mezza riga), essi, nella mente del Vico, volevano essere, non paragrafi, ma precisamente «capita». Prova ne sia che «caput ultimum» è intitolato, nel testo, il CCXXII, e che nelle note a piè di pagina viene adoperata l’abbreviazione «cap.» per rimandare a quelle divisioni primarie. e il segno «§» per citare i capoversi o paragrafi dei men brevi di quei «capita». Del resto, chi ponga qualche attenzione ai diversi caratteri tipografici usati nei molti titoli marginali, s’avvede che, in ciascun caput, il primo titolo, stampato in maiuscoletto, ha funzione di titolo dell’intero capitolo, laddove ai successivi, stampati in «tondo», è assegnata quella di sottotitoli di taluni capoversi o paragrafi.
A differenza che nelle altre sue opere, tutte prive di apparato a piè di pagina, il Vico abbondò nel De uno (alquanto meno nel De constantia) precisamente di note a piè di pagina, i cui richiami sono indicati, non con numeri progressivi, ma, alquanto fastidiosamente, con asterischi ( (*), (**), (***), ecc.). Il fatto stesso ch’egli dá a siffatte note il nome di «loci»[4] mostra che esse volevano essere — e sono in effetti — meri rimandi a luoghi o dello stesso De uno e del De constantia, o delle prime tre compilazioni giustinianee (Istituzioni, Digesto e Codice ) e (una volta sola) del Corpus iuris canonici, o di scrittori greco-latini, o, per ultimo, ma molto piú di rado, di autori medievali e moderni. I rimandi ai passi del De uno sono fatti, come s’è detto, per capitoli e paragrafi o capoversi, indicati quelli col numero ordinale correlativo, questi con la prima parola di ciascuno. I rinvii al non ancora scritto, e forse appena abbozzato, De constantia, sono fatti, a loro volta, o in modo vago o, se qualche volta con maggior pretesa di precisione, in guisa quasi sempre erronea. Le citazioni delle compilazioni giustinianee non sono ispirate a un criterio uniforme: onde, se qualche volta i passi vengono indicati, alla moderna, coi numeri dei libri, titoli, frammenti (pel Digesto) o costituzioni (pel Codice) e paragrafi, piú spesso il Vico adotta il sistema, ancora in voga nel Settecento, di trascrivere abbreviato il solo titolo e le prime parole del frammento o costituzione e del paragrafo. L’unica citazione del Corpus iuris canonici è così ingarbugliata («Cap. I de constit. lib. VI») che è occorsa qualche fatica per intenderla («Libro sexto Decretalium, I, 2 (De constitulionibus), 1»).
Degli scrittori antichi e moderni — salvo che per sant’Agostino, pel quale il piú delle volle è aggiunta persino l’indicazione dell’edizione, del volume e della pagina — lo stesso Vico, conforme l’altro uso dei suoi tempi, si contenta d’additare il solo numero del libro, non anche gli altri del capitolo o paragrafo.
Ciò premesso, si tenga presente che il 6 febbraio 1720[5] la curia arcivescovile napoletana scelse o, per essere piú esatti, consacrò nei suoi atti la fictio iuris di avere scelto[6] quale revisore ecclesiastico il canonico Giulio Niccolò Torno [7], grande amico dell’autore e, precisamente dal De uno in poi, revisore di tutti i suoi scritti: da che la possibilitá che sin da quel giorno il manoscritto fosse piú o meno pronto per la stampa. La quale, in tal caso, è anche possibile fosse cominciata poco dopo il 29 febbraio — giorno in cui il Torno compilò il suo parere, nel quale si può quasi giurare ponesse le mani lo stesso Vico, se pure, come indurrebbe a pensare l’eccellenza dello stile latino, non ne fu proprio lui il principale autore[8] — e si trovasse a buon punto il 19 luglio — giorno in cui il Vico ottenne che il Collaterale desse all’altro suo antico amico Nicola Galizia (colui appunto ch’era uscito non poco compromesso dal processo intentato nel 1693 dal Sant’Ufticio agli «ateisti» napoletani[9]) l’incarico, adempito sbrigativamente quello stesso giorno, di censore civile. Senonché codesta possibilitá non esclude l’altra che il parere del Torno si riferisse, non alla redazione definitiva del De uno, bensí all’abbozzo o schema che lo precedé[10]: nel qual caso l’inizio della stesura definitiva sarebbe da collocare dopo il 29 febbraio e quello della stampa forse dopo il 19 luglio[11]. Comunque, il volume fu pubblicato non troppo prima del 13 settembre, giorno in cui il padre Giacco, che fu tra i primi ad averlo, ne ricevè nel suo convento di Arienzo l’esemplare inviatogli in dono dall’amico autore[12].
Diversamente che in quasi tutti gli altri suoi scritti a stampa, antecedenti e susseguenti — nei quali (fedele, anche nell’estrinseco, alla sua massima che i veri studiosi non debbano dar fuori se non «piccoli libricciuoli, pieni di cose proprie»[13]) il Vico aveva adottato e adottò poi l’agile «dodicesimo» — il De uno (così come il De constantia e le Notae, pei quali, naturalmente, non era possibile mutare il formato) fu stampato in quarto. Bastarono, per tanto, a contenere la materia, 195 pagine numerate, piú 4 innumerate in principio, consacrate al frontespizio, all’epigrafe ciceroniana e ai pareri per la stampa. Non si sa quanti esemplari venissero tirati in carta comune (forse, al pari della Scienza nuova prima, mille): è sicuro, invece, che i fogli di stampa vennero rimessi sotto il torchio per dar fuori pochi altri esemplari in carta distinta e dai margini quanto mai ampi. Tra questi ultimi uno fu inviato nell’ottobre o novembre 1720, e pel tramite del fiorentino napoletanizzato Alessandro Rinuccini, ad Anton Maria Salvini[14], che ne riempì i margini di postille quasi tutte etimologiche e grammaticali[15], salvo poi a donarlo o legarlo alla Riccardiana di Firenze, ove si serba tuttora[16]. Un secondo, come si vedrá[17], venne mandato piú tardi, insieme col De constantia, al principe Eugenio di Savoia. Un terzo, infine, per consiglio del frate napoletano Tommaso Maria Alfani, venne consegnato il 9 febbraio 1722, e anche questa volta insieme col De constantia, al giovane conte di Wildenstein, perché, giunto che fosse da Napoli a Lovanio, facesse recapitare l’uno e l’altro volume a Giovanni Ledere. Il quale, ricevutili, inviò da Amsterdam (8 settembre 1722) «all’illustrissimo signore e padrone colendissimo il signor Gio. Battista Vico, degnissimo professore in retorica nell’Universitá di Napoli», una lettera elogiativa, contenente, inoltre, la promessa, sollecitamente mantenuta, d’inserire nella Bibliothèque ancienne et moderne, da lui diretta e letta in tutto il mondo scientifico del tempo, quei due annunzi bibliografici, non meno laudativi, che il Vico diffuse, con tanta sua gioia, per Napoli e intercalò poi, in una sua versione italiana, nell’Autobiografia[18].
In questa è pur narrato che proprio quei due annunzi valsero finalmente a chiudere in Napoli bocche malèdiche, che non si stancavano di dir male della grande fatica vichiana e che, anziché tacere quando il Vico aveva divulgato la prima missiva clericiana, la avevano definita «privato complimento», non senza soggiungere «esser impossibile che, con quest’opera del Vico, volesse il Clerico cantare la palinodia di quello che esso, presso a cinquant’anni, aveva sempre detto: che in Italia non si lavoravano opere le quali, per ingegno e per dottrina, potessero stare a petto di quelle che uscivano oltremonti». Ciò che l’Autobiografia non racconta (ma lo confessa il Vico medesimo in una lettera al Giacco del 12 ottobre 1720[19]) è che, súbito dopo la comparsa del De uno, quelle critiche o maldicenze napoletane avevano assunto aspetto di censure anche e principalmente d’indole religiosa. Giacché coloro che le formularono — sebbene appartenessero quasi tutti al partito anticurialistico e fossero quindi in continua guerra guerreggiata proprio con quei preti e frati (e segnatamente con l’ultracurialista Torno) coi quali non mai come allora l’apolitico Vico viveva in corrispondenza d’amorosi sensi — vollero, «tinti da una simulata pietá», non solo accusare il De uno d’irreligione, ma ricordare altresí che l’autore, fattosi poi cattolico cosí fervente, era ben caduto, nella sua prima gioventú, in «debolezze ed errori» precisamente religiosi. Due accuse, contro le quali gli annunzi dell’» eretico» Ledere non potevano nulla, e che, a ogni modo, erano tutt’altro che infondate: giacché, quale che fosse l’atteggiamento pratico assunto dal Vico, nella sua giovinezza, di fronte al movimento «ateistico» o libertinistico napoletano, sta in fatto che nel De uno, cosí come poi nel De constantia, nelle Notae e nelle due Scienze nuove, affiorano da ogni parte, sulle origini della civiltá e delle religioni, proprio quelle teorie lucreziane che trent’anni prima avevano indotto la Chiesa cattolica a intentare ai piú cari amici del Vico (il ricordato Galizia, Basilio Giannelli, Giacinto de Cristofaro e altri) il giá mentovato processo d’ateismo[20]. Senza dubbio, sin da quando vennero primamente formulate, il Vico s’era vantato di possedere, contro quelle accuse, uno «scudo», e non tanto nel parere del suo Torno, che sarebbe stato documento alquanto sospetto, quanto in una lettera elogiativa del suo Giacco[21]: una lettera, a suo dire, in cui sarebbe stato cosí ammirevole «il sublime tono del concepire, dal quale esce, come da sé, il gran parlare con la rara nota di una eroica naturalezza», che taluni amici dell’elogiato la avrebbero, mercé copie manoscritte, opposta sin da allora «all’altrui maladicenza», se proprio il Vico non avesse ritenuto piú opportuno non «innalzarla come bandiera di una inutil guerra con uomini de’ quali piuttosto si dee aver pietá». Ma, a dir vero, chi percorra quella tanto breve quanto non sapida letterina, nella quale, senza accennare nemmeno da lontano a una sola delle dottrine vicinane, il Giacco non dice altro che d’avere «con grandissima aviditá divorato» quel libro di cosí difficile intendimento in soli «sei giorni» (nel che è implicita la confessione d’averlo piú sfogliato che letto e certamente di non averlo capito), d’aver trovato appena credibile ch’esso potesse «esser opera d’un uom solo» e d’aver perciò benedetto «il Signore Dio per aver fornito la vostra mente di tanta luce che basta ad illustrare la nostra etá, non che la patria nostra»; chi legga codeste banalitá e ricordi, d’altra parte, con animo quanto battagliero e con quanti «indefessi labores vigiliaeque» il Vico usasse abitualmente, come scrive nelle Vindicae’[22], «meam dignitatem ab aemulis vindicandam obtinendamque», ha pure il diritto di pensare che, quella volta, egli s’astenesse dall’entrare in lizza perché intimamente convinto così della nessuna efficacia difensiva di quel misero «scudo», come del fondamento di vero ch’era in quelle accuse.
Checché sia di tutto ciò, su di esse non tardò a cadere l’oblio, così come, del resto, il De uno e, in genere, l’intero Diritto universale finí con l’essere totalmente dimenticato, specie da che il Vico, superata nelle due Scienze nuove, e particolarmente nella seconda, la posizione mentale di cui esso è documento, volle farne, nel 1731, esplicito rifiuto [23]. A mala pena, lungo tutto il secolo decimottavo, esso era consultato di quando in quando da qualche studioso di diritto, come per esempio, nel 1780, dall’allora giovane Romagnosi[24]: onde bisognò giungere al primo anno del nuovo secolo, ossia alla fioritura di studi vichiani ch’è tra le caratteristiche del grande «secolo della storia»[25], perché si cominciasse a comprendere quanto il De uno (e piú ancora, naturalmente, il De constantia e le Notae) giovasse alla piena intelligenza del cosí difficile pensiero del primo e maggiore tra i moderni teorici della storiografia.
E invero sin dal 1801 Vincenzo Monti, o chi altro fosse, in quell’anno, l’anonimo traduttore italiano del De antiquissima italorum sapientia[26], si proponeva di volgarizzare anche il De uno, salvo poi a non cominciare nemmeno quella nobile fatica. Egual destino, del resto, ebbe un’altra versione italiana che Gabriele Pepe, esule a Firenze, pensava di preparare nel 1824, e di cui poi (1833) si contentò di proporre l’esecuzione a suo fratello Carlo, che neppur lui ne fece nulla[27] Il medesimo Gabriele annunziava il 25 marzo 1825 che, una settimana dopo, si sarebbe iniziata a Firenze, a sua cura, un’elegantissima ristampa del testo latino, di cui, a suo dire, proprio quella mattina egli aveva presentato alla Censura, per l’approvazione, l’edizione originale[28]. Senonché codesta presentazione fu fatta soltanto il 18 aprile dalla stamperia Viggiani[29] — una piccola tipografia fiorentina, che pare si consacrasse prevalentemente alla stampa di commedie popolari e di libretti di devozione[30]; — e, sebbene il censore Mauro Bernardini desse, com’era da attendere, parere favorevole[31], la divisata ristampa dovè restare mero proposito, giacché chi scrive ne ha fatto invano ricerca in tutte le pubbliche e in molte biblioteche private di Firenze.
Prima, pertanto, in ordine di tempo è quella, con alcune note, inserita nel 1835 dal Predari nella sua incompiuta edizione delle Opere vicinane. A essa tennero dietro, quasi simultaneamente, l’altra di Giuseppe Ferrari, contenuta nel terzo volume[32] della sua prima raccolta delle anzidette Opere, e taluni estratti riferiti in francese da Giulio Michelet nella sua traduzione delle Œuvres choisies de Vico[33], ristampata piú volte[34]. Nel 1839 l’erudito napoletano Nicola Corcia ne pubblicava un’integrale versione italiana[35], seguita, nel 1841, da un’altra del professor Enrico Amante[36], che, quantunque parecchio cattiva, fu ristampata due volte: la prima, in quello stesso anno e anche questa volta col testo latino, nel secondo volume dell’edizione delle Opere vichiane, cominciata a pubblicare a Napoli nel 1840 dal libraio Giuseppe Iovene; la seconda, sempre col testo latino, nel 1843[37]. Una nuova ristampa del solo testo latino apparve nel 1852 nella seconda (e, per le due Scienze nuove, terza) edizione delle Opere curata dal ricordato Ferrari[38]. Due anni dopo, il dottor Carlo Enrico Müller, al quale sin dal 1822 il Savigny aveva additato e donato l’edizione originale, ne pubblicò in tedesco una sua, piú che versione, rielaborazione, qua e lá abbreviata e corredata di note, nelle quali si trovano raffronti fra le dottrine vichiane e quelle similari esposte nella Philosophie des Rechts dello Hegel, nella Rechtsgeschichte dello Hugo, nella Römische Geschichte del Niebuhr e in parecchi scritti di esso Savigny[39]. E finalmente altre tre versioni italiane, tutte tre alternate col testo latino e delle quali la prima è illustrata da un commento amplissimo, videro la luce nel 1855, nel 1858 e nel 1866 per opera di Costanzo Giani[40], del mentovato avvocato Pomodoro[41](che vacò al còmpito non troppo meglio, e talora peggio, dell’Amante) e di Carlo Sarchi[42].
Notae
- ↑ Veramente nel testo dell’edizione originale la dicitura «principium» manca (e appunto perciò nella presente riedizione è stata posta tra parentesi quadre). Ma la si ritrova spesso nei rimandi a piè di pagina.
- ↑ Autobiografia, ed. cit., p. 41.
- ↑ Cfr. Nicolini, Giovinezza cit., cap. IV, e Brevi cenni cit., § VIII.
- ↑ Nell’errata-corrige ms. aggiunto all’esemplare postillato della Nazionale di Napoli ricorre spesso la dicitura «in locis», equivalente appunto a «nelle note».
- ↑ Cfr. presente edizione, p. 261.
- ↑ Giacché è fuor d’ogni dubbio, quantunque manchino documenti al riguardo, che la scelta fu fatta dallo stesso Vico. E invero, sino al 1792, la censura preventiva della stampa, salvo casi eccezionali, era attuata a Napoli con tanta bonomia, che non solo la designazione dei censori veniva lasciata per lo piú agli autori medesimi, ma non di rado costoro scrivevano essi stessi i «pareri», salvo poi a farli sottoscrivere da qualche amico compiacente. Che anzi nei tre o quattro decenni precedenti il 1792, nei quali, pur senza essere consacrata in diritto, la libertá di stampa vigeva a Napoli quasi di fatto (cfr. F. Galiani, Del dialetto napoletano, ediz. Nicolini, Napoli, Ricciardi, 1923, pp. xli-ii), si giunse al punto che censore civile delle anonime Lettere viileresche di Tommaso Fasano (1778) fu, anche ufficialmente, l’autore medesimo.
- ↑ Notizie biobibliografíche in Vico, Autobiografia e Carteggio, passim (cfr. indice dei nomi).
- ↑ E se le cose andarono così, sarebbe rafforzata l’ipotesi, formulata testé dal Croce, che l’insistenza quasi polemica con cui il Torno (e, per lui, nel caso, il Vico) pone in rilievo, nei suoi pareri, la conformitá delle dottrine vichiane ai dogmi della religione cattolica fosse quasi un mettere le mani avanti per evitare che contro il Diritto universale e le due Scienze nuove venisse mossa (come pur fu mossa contro il De uno) la facile accusa d’irreligione (cfr. Il Vico e l’ortodossia, in appendice alla citata ristampa dell’opera del Finetti, p. 115).
- ↑ Cfr. Nicolini, Giovinezza e in Vico, Autobiografia, ecc., indici dei nomi.
- ↑ Ricordare che, analogamente, quello che il Vico diè quale parere del Torno sulla Scienza nuova prima si riferisce, in realtá, alla precedente, non pubblicata e oggi dispersa Scienza nuova in forma negativa (cfr., nella presente edizione delle Opere, vol. III, p. 330).
- ↑ Farebbe propendere per questa seconda ipotesi la circostanza che tra il parere del Torno (29 febbraio) e l’imprimatur della curia arcivescovile (17 agosto) intercederono ben cinque mesi e mezzo, e tra il parere del Galizia (19 luglio) e l’imprimatur del Collaterale (19 agosto) appena trentuno giorni.
- ↑ Giacco a Vico, 19 settembre 1720 (in Vico, Carteggio % p. 153): «Oggi appunto sono sei giorni da che mi venne fra mano il libro di Vostra Signoria», ecc.
- ↑ Opere, presente edizione, I, 215.
- ↑ Cfr. Vico, Carteggio, p. 156.
- ↑ Tre sole sono di diversa indole; e, tra esse, quella apposta a un passo sul dolum bonum dei venditori, che chiedono di piú per avere di meno, suona ironicamente: «Questa baronata di chiedere più del vero prezzo non si fa in Italia!».
- ↑ Vol. segnato PP. 15311. Mancano, per contrario, nella Riccardiana il De constantia e le Notae. Eppure deve ritenersi tanto più sicuro che quei due volumi venissero anche essi inviati al Salvini, in quanto nel De constantia si discorre a lungo di lui (presente edizione, pp. 452-5).
- ↑ Cfr. il § V della presente Nota.
- ↑ Autobiografia e Carteggio, pp. 42-3, 94-104, 177, 189-90.
- ↑ Carteggio, ed. cit., pp. 154-6.
- ↑ Nicolini, Giovinezza, pp. 127-9 e Brevi cenni, pp. 14-6; e cfr. Croce, in Finetti, pp. x sgg. e 118.
- ↑ Quella del 19 settembre 1720 giá citata.
- ↑ Presente ediz. delle Opere, III, 350.
- ↑ Autobiografia, p. 73.
- ↑ Cfr. Predari, nella sua edizione delle Opere del Vico. I, 771, nota a.
- ↑ Cfr. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono2 (Bari, Laterza, 1930), vol. I, cap. 1.
- ↑ Cfr. la prefazione del traduttore (ristampa di Napoli, Silvestri, 1817, p. xii).
- ↑ Cfr. M. Romano, Ricerche su Vincenzo Cuoco (Isernia, Colitti, 1904), pp. 11-2, in nota.
- ↑ Romano, l. c.
- ↑ Archivio di Stato di Firenze, Deliberazioni della Censura, registro 10 (ottobre 1824-agosto 1825), numero interno 10479.
- ↑ Per lo meno dall’ottobre 1824 all’agosto 1825 essa non presentò alla Censura se non due commedie dell’abate Giambattista Zannoni e una Preparazione alla solennitá dello Spinto Santo. Cfr. Archivio citato, voi. cit., numeri interni 9922 e 10507.
- ↑ Archivio citato, Buon governo, anno 1825, filza IX, fascicolo 1290, numero interno 182.
- ↑ Milano, Classici Italiani, 1835, pp. t-156.
- ↑ Paris, Hachette, 1835.
- ↑ Per esempio, a Bruxelles, Société belge de la librairie, 1837, col titolo: Mémoires de Vico ècrits par lui-même, suivis de quelques opuscules, lettres, etc.
- ↑ Dell’unico principio e fine del diritto universale di Giambattista Vico, prima versione italiana (Napoli, tipogr. Pierro, 1839). Un esemplare, con molte correzioni manoscritte del Corcia, si serba nella collectio del Croce.
- ↑ Del principio unico e dell’unico fine del diritto universale di Giambattista Vico, versione italiana del prof. Enrico Amante, eseguita sull’edizione milanese illustrata da Giuseppe Ferrari (Napoli, Iovene, 1841).
- ↑ Del principio unico, etc., recato in italiana favella chiarito e annotato dal professore di giurisprudenza Enrico Amante (Napoli, Iovene, 1843). Senonché le note, che d’altronde si contano sulle dita, sono infelici quanto la traduzione, dedicata, in questa ristampa, a Nicola Nicolini.
- ↑ Vol. III.
- ↑ Von dem einem Anfange und dem einem Elle alles Rechts, nach des J. B. Vico Büche De universi iuris etc., bearbeitet und mit Einleitung herausgegeben von Dr. K. H. Mueller, Grossherzoglich Meklenburg-Streilitzschen Hofrathe, Stadtrichter zu Neubrandeburg (Neubrandeburg, Verlag von C. Brunslovv, 1854).
- ↑ Dell’unico principio e dell’unico fine dell’universo diritto, opera di Giambattista Vico, tradotta dal latino e commentata, coll’aggiunta di appendici relative alla materia dell’opera, da Costanzo Giani, dottore in ambo le leggi e maestro privato di giurisprudenza (Milano, coi tipi di Alessandro Lombardi, 1855). Ne esiste anche una ristampa di solo frontispizio con la data del 1858.
- ↑ Nella sua raccolta delle Opere del Vico, voi. II.
- ↑ Dell’unico principio e dell’unico fine del diritto universale di Giambattista Vico, traduzione di Carlo Sarchi (Milano, Agnelli, 1866).