I. La preistoria del Diritto universale | III. Il De uno |
II
LA «SINOPSI»
Dopo avere compiuta nel manoscritto, ma non ancora pubblicata, e forse nemmeno cominciata a stampare, la stesura definitiva del De uno o primo libro del Diritto universale[1], il Vico, «per darne innanzi tempo un’idea che dimostrasse poter tal sistema uscire all’effetto»[2], mise fuori, nella prima decade del luglio 1720[3], un breve saggio, o piuttosto annunzio o manifesto editoriale, dell’intera opera: annunzio redatto in lingua italiana e indicato oggi col titolo, risalente anch’esso all’autore[4], di Sinopsi del Diritto universale, ma che, nell’edizione originale (stampata in Napoli da Felice Mosca[5] e contenuta o, per dir meglio, compressa in quattro pagine in quarto piccolo a due colonne di ben ottanta righe ciascuna), non recava alcuna intitolazione e indicazione tipografica.
Giá prima che quel manifesto vedesse la luce, Anton Francesco Marmi, preannunziandone da Firenze la comparsa[6], scriveva al suo amico e corrispondente senese Uberto Benvoglienti d’aver saputo da Napoli che l’opera mostrava bensí «l’ingegno e l’erudizione» del Vico, ma, insieme, «la sua stravaganza». E, cominciatasi a divulgare la Sinopsi, soggiungeva (20 luglio) d’aver sentito ch’era «un lavoro imbrogliato e fantastico bene, com’è il cervello» dell’autore, il quale aveva voluto «cominciare dove gli altri vanno a finire». Da che si vede che giá dall’apparizione della Sinopsi prendesse a formarsi in Napoli la leggenda, culminata otto anni dopo, che il Vico, «per ipocondria e per soverchio fissar nei suoi studi metafisici», fosse «impazzito»[7].
Leggenda maligna e in cui non è altro fondamento di vero se non che il filosofo napoletano aveva ingegno troppo alto da adottare la communis opinio quale costante e unica norma di giudizio, e che il volgo profano, anche se letterato, ha sempre considerato «pazzi o, con vocaboli alquanto piú civili, stravaganti o d’idee singolari»[8] coloro che abbiano l’abitudine pericolosa di non pensare con l’intelletto altrui. Tuttavia sta in fatto che — giá di lettura oltremodo faticosa pel troppo fitto e minuto carattere tipografico (una sorta di «corpo sei» senza interlineo) — la Sinopsi, nel suo non riuscibile e non riuscito tentativo di condensare in così piccolo spazio centinaia di difficili considerazioni filosofiche e storiche, appare, anche oggi, così poco comprensibile a chi non abbia lunga consuetudine con le dottrine vicinane, da dover pure suscitare allora, in lettori ignari e poco ben disposti, se non a dirittura mal prevenuti, l’impressione di sogni deliranti d’un cervello malato.
Si spiegano, pertanto, le accoglienze, tutt’altro che oneste e liete, ch’essa ebbe così presso i non pochi conoscenti napoletani dell’autore, come presso i parecchi «letterati d’Italia e d’oltremonti»[9], a cui venne distribuita o inviata. Senza dubbio, in una lettera al padre Giacco, scritta qualche giorno dopo la comparsa di quel «mezzo foglio di carta»[10], cioè in un tempo in cui il povero Vico poteva o voleva nutrire ancora qualche illusione, egli dice che quel manifesto aveva prodotto «nell’una parte e nell’altra», cioè in senso laudativo e in senso biasimativo, «de’ grandi movimenti in questa cittá». Ma nell’Autobiografia[11], lavorata cinque anni dopo, e quindi con maggiore pacatezza storica, il medesimo Vico, senza punto accennare a lodatori napoletani di sorta, si contenta di raccontare che, della Sinopsi, alcuni, in Napoli (cioè, con molta probabilitá, Nicola Capasso, Giovanni Acampora, Pietro Giannone, non ancora esule a Vienna e intento a dar l’ultima mano all’Istoria civile, e, in genere gli anticurialisti, tutti piú o meno cartesiani o cartesianeggianti), «diedero giudizi svantaggiosi», salvo poi a non sostenerli dopo che uscì il De constantia, adorno «di giudizi molto onorevoli di letterati dottissimi»[12]. E, quanto agli studiosi «d’Italia e d’oltremonti», dei due soli di cui si conosca che discutessero il manifesto vichiano, l’uno, ossia il barone vestfalo Luigi von Gemmingen, che lo ebbe tra mano durante una sua dimora a Roma, pur riconoscendo che quel «disegno di libro» dava «molto piacere» per le «molte cose belle e curiose» che prometteva, lo trovava, appunto perché ancora mero disegno, non suscettibile di giudizio critico[13]; e l’altro, vale a dire Anton Maria Salvini[14], non fece altro, da quel purus grammaticus che era, che confutare la troppo fantasiosa etimologia vichiana di «Areopago» e derivati.
Comunque, dopo la pubblicazione del De uno e, ancora piú, del De constantia, della Sinopsi, divenuta giá da allora una raritá bibliografica, si finÌ col dimenticare persino L’esistenza. Ne risorse bensí, e sempre piú vivo, il desiderio tra i «vichiani» della prima metá del secolo deciMonono; né Giuseppe Ferrari, nell’accingersi a curare la sua prima raccolta delle Opere del Vico (1835-7), omise di ricercare quell’introvabile foglio volante, salvo poi, sfiduciato, a dichiararlo «sine spe amissum»[15]. Per contrario, il suo emulo Francesco Predari ne annunziò[16] prossima una sua ristampa, essendogliene stata promessa copia da «un sommo napoletano», che ne aveva rinvenuto un esemplare «tra l’antica biblioteca dei suoi padri». E può ben darsi che qualche vaga promessa al riguardo avesse in Napoli quel «signor Carlo Tirelli», che, come racconta il medesimo Predari[17], gli fu «largo di molte cose del Vico preziosissime», e magari che l’esemplare posseduto dal «sommo napoletano» fosse o quello rilegato in un volume vichiano, che, dopo aver girato mezza Italia, tornò a Napoli dopo il 1872 e si trova ora nella Biblioteca Nazionale[18], ovvero l’altro, che, capitato intorno al 1S60 in potere del magistrato e bibliofilo napoletano Francesco Antonio Casella (1818-94) e posto in vendita dopo la sua morte[19], è finito oggi non saprei dir dove. Comunque, lo stesso Casella usava raccontare[20] che — avendo ferma convinzione che un altro esemplare dovesse trovarsi, per dono dello stesso Vico, fra le carte di monsignor Celestino Galiani[21], passate via via a Ferdinando Galiani, all’avvocato Francesco Saverio Azzariti e per ultimo al giureconsulto Nicola Nicolini (1772-1857), bisavolo di chi scrive[22] — insisteva da gran tempo presso questo suo giá benevolentissimo maestro[23] perché gli consentisse di frugare tra quelle carte, finché una sera, nel 1856: — Contentiamo — disse il Nicolini — il nostro don Ciccio; — e mise fuori le filze, tra cui, quasi ad apertura di volume, uscì l’esemplare tanto desiderato. Il quale, ristampato quello stesso anno dal professor Luigi Capuano[24] e ben tre volte da Giovanni Manna[25] — attraverso le quali ristampe la Sinopsi passò nel 1858 nella ristampa napoletana delle Opere del Vico curata dall’avvocato Francesco Saverio Pomodoro[26], — venne fatto rilegare dal Nicolini alla fine del sesto volume delle Opere vichiane nella prima edizione del Ferrari, da lui usata; e, staccato di là da chi scrive, si trova oggi nella ricca Collectio viciana di Benedetto Croce[27].
Notae
- ↑ Che la stampa della Sinopsi fosse anteriore all’inizio di quella del De uno potrebbe desumersi dalla circostanza che nei piccoli passi testuali di questo riferiti in quella si riscontrano varianti: da che la probabilitá che, del De uno, il Vico tenesse presente, non il definitivo testo a stampa, bensí il manoscritto o qualche prova non ancora licenziata di bozze. Ma non è da escludere l’altra possibilitá che egli citasse se medesimo a memoria e si correggesse senz’avvedersene. Cfr. più oltre p. 775, nota 2.
- ↑ Autobiografia, ed. cit., p. 41.
- ↑ La lettera fiorentina del Marmi del 7 luglio, qui appresso citata, mostra che nel tempo in cui gli erano mandate da Napoli le notizie riferite nella lettera stessa, ossia otto o nove giorni prima, la Sinopsi non era stata pubblicata ancora. E, d’altra parte, da uua lettera del Vico al Giacco ( Carteggio, ed. cit., p. 150) appare che giá da alcuni giorni prima della data di essa (14 luglio) il Vico aveva cominciato a distribuire esemplari della Sinopsi ad amici napoletani.
- ↑ Autobiografia, passim, specie pp. 62, 72, 73.
- ↑ Su lui, tipografo di quasi tutte le opere del Vico e suo amico d’infanzia, F. Nicolini, La giovinezza di G. B, Vico2 (Bari, Laterza, 1932), indice dei nomi.
- ↑ Nella ricordata lettera del 7 luglio 1720. Della quale, così come dell’altra del 20 luglio, sono pubblicati estratti in Vico, Carteggio, ed. cit., pp. 301-2.
- ↑ Così in una lettera del conte Giovanni Artico di Porcia al Muratori del 16 luglio 1728 (riferita, con altre sul Vico, da T. Sorbelli, Documenti delle relazioni tra il Vico e il Muratori, in Giorn. st. d. lett. ital., CVI, 291-5); e cfr. G. F. Finetti, Difesa dell’autoritá della Sacra Scrittura contro G. B. Vico (1768), ediz. Croce (Bari, Laterza, 1936), p. 25. Alla sua fama di «pazzo» accenna del resto, e con parole molto sagge, il medesimo Vico nell’Autobiografia (ed. cit, p. 78).
- ↑ Autobiografia, l. c.
- ↑ Autobiografia, p. 41.
- ↑ Quella dei 14 luglio 1720, giá ricordata.
- ↑ Ed. cit., p. 41.
- ↑ Su questi giudizi Cfr. il § IV della presente Nota.
- ↑ Vedere la sua lettera del 31 agosto 1720 al padre Tommaso Maria Alfani, in Vico, Carteggio, ed. cit., pp. 151-2. Cfr. altresí Autobiografia, p. 41, in cui il Vico, fraintendendo un passo di codesta lettera, racconta che il Gemmingen gli «portò» obiezioni filosofiche alla Sinopsi da parte di Ulrico Huber, morto sin dal 1694, e di Cristiano Tomasio, ancor vivo nel 1720 (morì nel 1728), ma di cui il Gemmingen si limita a citare teorie apparse giá in libri a stampa.
- ↑ In una lettera a Francesco Valletta andata dispersa. Cfr. Vico, Autobiografia, p. 41; nonché Diritto universale, presente edizione, pp. 452-5.
- ↑ Nell’anzidetta sua prima edizione, vol. III (Milano, 1835), p. xxiu.
- ↑ Nel primo volume (unico comparso) della sua edizione delle Opere del Vico (Milano, 1835), p. 749, nota 1.
- ↑ Nella prefazione al citato volume, p. ix in nota.
- ↑ Cfr. il § V della presente Nota.
- ↑ Cfr. Croce, Primo supplemento atta «Bibliografia vichiana» (Napoli, 1907), p. 3.
- ↑ Cfr. Croce, Pagine sparse, a cura di G. Castellano, serie terza (Napoli, Ricciardi, 1920), p. 97.
- ↑ Sui suoi rapporti col Vico, cfr. Vico, Autobiografia e Carteggio, indice dei nomi, sub «Galiani»»; nonché F. Nicolini, Monsignor Celestino Galiani (Napoli, 193O» indice dei nomi sub «Vico».
- ↑ Cfr. F. Nicolini, I manoscritti dell’abate Galiani, in Critica, I (1903), 393 sgg.
- ↑ Cfr. F. Nicolini, Nicola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metá del secolo decimonono (Napoli, 1907), pp. 356-8.
- ↑ Negli Annali di diritto teorico-pratico e in estratto. Che il testo Capuano (e i quattro che ne derivano) fosse trascritto (e forse per opera dello stesso Casella) dall’esemplare Nicolini, appare da p. 14, nota 1, dell’estratto, ov’è riferita una postilla sulla «decima d’Ercole», aggiunta a penna dal Vico soltanto su quell’esemplare, non anche sull’altro della Nazionale di Napoli. Cfr. presente edizione, p. 15, nota 1.
- ↑ Nell’Antologia contemporanea, I (1856), pp. 1-7; nei Rendiconti dell’Accademia pontaniana, vol. IV (1856); e nello Spettatore napoletano, anno I (1856), pp. 5-20.
- ↑ Vol. II, pp. i-xii.
- ↑ Nel catalogo antico della Marciana di Venezia è indicato, col rimando a una miscellanea, un opuscolo di G. B. Vico, «in cui si parla del De universi iuris» ecc.: opuscolo che non può essere se non la Sinopsi. Ma, quaranta o cinquant’anni fa, quella miscellanea, insieme con altre molte, cangiò segnatura, senza che la nuova venisse annotata nel catalogo; né all’amico Luigi Ferrari né a me è riuscito finora di rintracciarla.