Sinopsi del diritto universale


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Sinopsi del diritto universale
1720

editio: Laterza, 1936; Fausto Nicolini recensuit
fons: librum vide

SINOPSI DEL DIRITTO UNIVERSALE

(1720)



Giambattista Vico, nel principio del mese di marzo del presente anno 1720, ha, in Napoli, dato alle stampe di Felice Mosca un’opera latina in un volume in quarto, divisa in due libri — il primo intitolato De uno universi iuris principio et fine uno: il secondo, De constantia iurisprudentis — ne’ quali travaglia stabilire un principio nel quale tutta l’erudizione divina e umana costí dimostrata.

E, poste due definizioni — una del vero, che sia «quod rerzim ordini conformatur», altra del certo, che sia «conscientia dubitandi secura» — e presi come lemmi cinque sole veritá metafisiche, dimostra che dall’ordine, per l’ordine e nell’ordine delle cose l’uomo conosce il vero di quelle, e che perciò l’idea dell’ordine ci dimostri tre cose:

1. Dio essere,

2. esser mente infinita,

3. che cosí in noi, delle scienze, come da esso, per esso e in esso, sono i principi delle cose.

Quindi ragiona della natura di Dio, che sia «nosse, velle, posse infinitum», dal che dimostra la natura dell’uomo, che sia «posse, velie, posse finitum, quod tendat ad infinitum». Da ciò dimostra i principi della storia sacra:

1. Adamo creato da Dio,

2. di natura intiero,

3. per sua colpa corrotto;
e, in conseguenza, dimostra i principi della teologia cristiana.

Per tutto ciò ferma che ’l piacere, che, perché naturale, aveva l’uomo intiero di contemplare l’eterno vero, cangiossi nell’uom corrotto in una forza che a noi fa, con dolore de’ sensi, la veritá. Questa forza del vero definisce essere la ragione umana nella natura corrotta, ed essere il fonte delle virtú sí intellettive come morali; e di queste seconde il fondamento essere l’umiltá dello spirito umano, la forma la caritá, e perciò l’autore e ’l fine Dio. Che sono i principi della morale cristiana.

Fa della virtú tre parti — prudenza, temperanza e fortezza, — che regolano le tre parti dell’uomo: la prudenza l’intendimento, la temperanza l’arbitrio, la fortezza la forza; e che la ragione umana abbracciata dalla volontá sia virtú in quanto combatte la cupiditá, e questa istessa virtú sia giustizia in quanto misura le utilitá. E cosí dalle tre parti della virtú fa nascere tre ius o ragioni: dominio, libertá e tutela. Dalla prudenza, o giusta elezione delle utilitá, il dominio; dalla temperanza, o moderato arbitrio di sé e delle sue cose, la libertá; dalla fortezza, o forza moderata, la tutela; e queste tre parti della giustizia essere le tre sorgive di tutte le republiche e di tutte le leggi.

Quindi mostra esser giusto in natura, perché quello ch’è eguale mentre il misuri, è giusto quando l’eleggi; e le due misure, aritmetica e geometrica, che son le norme di che si servono le due giustizie commutativa e distributiva, sono in natura, perché sono veritá nelle quali tutti convengono.

Quindi dimostra tra gli uomini essere per loro natura una societá di vero giusto, che è l'aequum bonum, l’utile eguale, in che consiste il ius naturale immutabile , nella quale societá tutti e sempre convengono. E che gli scettici, Epicuro, Macchiavello, Obbes, Spinosa, Bayle ed altri dissero esser l’uomo socievole per utilitá, la quale col bisogno o col timore vi gli portò, perché non avvertirono che altro sono le cagioni, altro le occasioni delle cose; le utilitá cangiarsi, ma l’uguaglianza di quelle esser eterna; e, non potendo il temporale esser cagione dell’eterno, né il corpo produrre l’astratto, l’utilitá è occasione per la quale si desti nella mente dell’uomo l’idea dell’ugualitá, che è la cagione eterna del giusto.

Sí stabilito il ius naturale immutabile , ne fa due parti: una, dipendente dalla volontá, che porge la materia a tutto il ius volontario e consiste nella libertá, dominio e tutela di quella e di questo; l’altra parte, dipendente da una ragione eterna, che dá le giuste misure alla libertá, al dominio, alla tutela, e gli dá forma eterna di giusto. E queste due parti essere dette dagli antichi interpreti «ius naturale prius» e «ius naturale posterius», ed essere le medesime che «prima naturae» e «naturae consequentia» degli stoici, e che quel che è «prius» riceve forma di ius immutabile da quel che è «posterius». Perché può vietarsi, per essemplo, ch’uom si difenda e imporsi che sopporti l’ingiurie; ma non può giammai farsi che non sia lecito per natura il difendersene.

Stabilito l’un principio delle leggi e della giurisprudenza — la ragione — passa all’altro, che è l’auttoritá, e [mostra] che l’auttoritá è forma del certo, come la ragione è del vero; talché l’auttoritá sia parte della ragione, come il certo la è del vero: onde deono sopportarsi i tiranni, i quali sono pur ordinazione di Dio, perché pur sotto quelli si ha il certo, la coscienza che non dubita dello Stato, la qual debba perciò non turbarsi.

Quindi narra l’origine e ’l progresso dell’auttoritá, e mostra la prima essere auttoritá che chiama «di natura», la quale definisce «sua cuiusque humanae naturae proprietas: nosse, velle, posse, et quidem posse tum animo, tum corpore, quia utroque constamus», per la quale l’uomo «est in omni natura mortali summus».

Da questa fa nascer l’auttoritá che dice «di ragione» e definisce «sua cuiusque proprietas disponendi de re tua ut velis, vivendi ut velis, tuendi te et tua si velis» . Questa, nella solitudine e nello stato exlege, è l’auttoritá che appella «monastica», per la quale l’uomo «est in solitudine summus» e, iure superioris, ammazza chi gli fa violenza. Onde inferisce i duelli essere stati i primi giudizi nello stato exlege, e che non rispose falso Brenno ai romani : — che la prima legge che nacque al mondo fu della violenza, — ma lasciò il piú importante: — che sia dettata da una natura migliore.

Quindi nasce il ius gentium, che definisce «ius violentiae» e divide in «ius maiorum gentium» e «minorum». E [mostra] che il primo è il ius della violenza privata nello stato exlege, e da questo, oltre le famiglie, esser nato un altro abbozzo delle repubbliche, che mostra essere le clientele, delle quali, pur tuttavia, nell’antica storia si vedono sparse per tutto l’Occidente, sopra tutte, le Gallie, la Germania, la Brettagna, la Spagna, l’Italia e, infin, la Grecia: dalle quali poi vi nacquero le republiche degli ottimati sotto nomi di «regni» in Italia e in Grecia, di «principati» nel resto; e Romolo le prese dalle genti maggiori e ne ordinò con questa forma la sua republica. Per la qual cosa non avvertita, si è creduto di buona fede che le prime republiche fussero regni assoluti ; che si eleggessero i re dalla loro robustezza e dignitá dell’aspetto; e che, in quella rozza e sfrenata libertá, come se fosse la scienza del buon gusto, tutti d’accordo convenissero nel piú robusto e piú bello.

Non si niegano perciò i re eroici. Ma si dice mancare i principi a tutta la storia profana, perché si sono ignorati i veri principi della poesia, che esso pruova essere la prima storia de’ gentili, e però dover lei essere la fiaccola del ius delle genti. Perciò, sospendendo per un poco il credito all’antichitá — che i primi poeti fossero stati teologi e con la loro teologia avessero fondato le republiche — fa queste tre domande:

1. La natura degli uomini è cosí fatta che prima attende al necessario, dipoi al commodo, finalmente al piacere. Come, dunque, prima di tutte le arti del commodo e del piacere, che tutte si devono alla republica, nacque la poesia, la quale ancor si contrasta se sia nata per utile o per diletto, convenendo in ciò tutti: che non sia nata per alcuna necessitá?

2. La stessa natura degli uomini è pur cosí fatta che prima avvertono alle cose che ci toccano i sensi, poi a’ costumi, finalmente alle cose astratte; e con quest’ordine procede la storia de’ filosofi, [poiché] primi furono i fisici, dipoi Socrate richiamò la morale dal cielo, finalmente venne Platone e gli altri divini. Come andò a rol'uverscio la faccenda nel mondo incolto: che Orfeo alle fiere, Anfione ai sassi cantassero la natura e ’l poter degli dèi, onde gli ammansirono ed unirono nelle cittá?

3. I fanciulli intendono i soli particolari; onde gli piú ingegnosi non si sanno spiegare che per simiglianze. Come, nella puerizia del mondo, tutto ad un colpo vi furono uomini che intesero le republiche, che sono gli universali de’ commodi umani?

Per tutto ciò pruova che l’origine della poesia non fu né ’l piacere né ’l commodo, ma la necessitá la quale ebbero i primi padri d’insegnare a’ figliuoli gli essempli degli antenati. E le genti umane, perché ingegnose, in quella povertá delle lingue, a guisa d’ingegnosi fanciulli, invece di generi, de’ quali erano incapaci, dalla natura eran portati a formare imagini, le quali sono i primi caratteri delle lingue, onde poi le lettere «caratteri» furono dette. E tali furono le favole a’ greci, per essemplo, quali i ieroglifici agli egizi. E, perché i figliuoli, non vi essendo ancora la scrittura, gli ritenessero piú facilmente a memoria chiusi dentro certe misure di parole, [i padri] le dicevan loro cantando[1].

Scoverta questa origine della poesia, la teologia de’ poeti non dev’essere punto la naturale, ma la civile; e, sí, la mitologia deve spiegare le favole con questo aspetto, talché il tempo favoloso non sia altro dal tempo oscuro, ma la storia di quello, e questa doverci dare i principi del tempo istorico. A questa meditazione accompagnando le seguenti cose, pur certe:

1. La prima cittá che si mentova in tutta l’istoria profana è Cuma, posta in Italia[2].

2. La prima architettura, la toscana, perché la piú rozza, la piú semplice e la piú soda, come quella degli egizi.

3. L’arte romana di schierare le battaglie, a giudizio di Livio, miglior della greca, anteponendola alla falange macedonica; e questa non è che figliuola della geometria e dell’aritmetica, onde è da dirsi che i romani l’ebbero ancor da’ toscani.

4. Certamente da’ toscani impararono l’aruspicina, la qual poi ritrova la piú antica spezie della divinazione.

5. Non vi fu nazione che avanzasse i romani nella maestá delle toghe, dell’insegne e de’ trionfi, le quali cose ebbero certamente da’ toscani.

6. Mentre Atene e Sparta erano picciole terre, i toscani in Italia avevano un potentissimo regno, che dava il nome al mare dalla sua Maremma sino allo stretto di Messina.

7. La filosofia italiana è piú antica e piú dotta della greca, al dire dello stesso Platone nel Timeo: onde esso riprende i suoi saper poco d’antichitá.

8. Romolo ha l’ardire di fondare la sua cittá in mezzo a sí potente regno de’ toscani e di un gran numero di minuti altri regni; e ’l popolo romano sotto i re, cioè [in] ducencinquant’anni, manomette piú di venti popoli tra di quelli e di questi, e non istende, al riferire di sant’Agostino (De civitate Dei, libro III, capitolo 15), piú che venti miglia l’imperio; e dovette ducencinquanta altri anni durare per soggiogare tutta l’Italia: onde, in mezzo a sí potenti e sí feroci popoli, gli fu bisogno stare sulla custodia del ius gentium, e non muover guerre se non offesi.

9. Per una evidente pruova (che, perché lunga, qui si tralascia) dimostra i latini aver conservato piú vestigi dell’infanzia della lor lingua che i greci: perché gli atteniesi emendavano ogni anno le leggi, e gli spartani, proibiti da Ligurgo di scriverle, le parlavano sempre con la lingua presente.

10. Il ius nexi certamente non traggittò di Attica in Roma, perché, innanzi la legge delle XII Tavole, perché i padri crudelmente l’esercitavano sulla plebe, questa si rivoltò. E pur Teseo con la legge «De nexo soluto forti sanate» fin da’ tempi eroici fonda la libertá degli atteniesi; e i romani, finalmente dopo trecento anni della lor republica, la riferiscono nelle XII Tavole.

Da tutte queste cose raccoglie che i romani custodirono fortemente i costumi delle genti maggiori, sopra i quali Romolo fondò la republica e che questa custodia loro sola ci possa dare cosí la certezza dell’origine, come la successione non interrotta della storia profana.

Quindi, ripigliando l’ordine incominciato, propone la definizione del ius civile in genere di Gaio, col quale «omnes populi partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur».

Due assiomi:

Primo: il ius volontario ha per sua fiaccola la storia o delle cose o delle parole.

Secondo: è certa regola d’interpretazione che le parole si devono prendere nella lor propia significazione, se non pure ne siegue inconveniente.

Tre postulati:

Primo: che [per] tutto ciò che per questi principi esso ragiona che gli uomini nel tempo oscuro dovettero operare, se non ci osta la sacra storia, e molto piú se ci assiste, si conceda che abbiano cosí operato.

Secondo: che, essendo il ius civile un ammasso di ius gentium e di proprio, ciò che nel ius romano si truova uniforme a ciò che si narra aver gli uomini nel tempo oscuro operato, si conceda esser de iure gentium.

Terzo: che i parlari o di prosa o di verso, e molto piú di verso che di prosa (quando i primi scrittori profani furono poeti), i quali convengono alle cose le quali si narrano del tempo oscuro, quelle propriamente significhino, e che poi la lor significazione si sia impropiata. Come, per essemplo, è piú propio «usurpare trinoctium», detto della donna che tre notti si toglie al marito e di sé a lui usum surripit, che «usurpare» per «interrompere la possessione con citare il possessore». Ed è piú propia la locuzion poetica, per essemplo, «sanguis circa praecordia fervet» che «irasci» de’ prosatori. Quello è un parlare per caratteri, per imagini: questo un parlare per genere astratti, che del sangue, del cuore e del bollimento se ne è fatta una parola, che dicesi «ira».

Con questi principi narra che, dopo il Diluvio, Noè e Sem suo figliuolo, conservando la vera religione di Dio creatore, conservarono nello stato di natura la memoria delle scienze e dell’arti che furono innanzi il Diluvio, e che dopo la confusion babilonica delle lingue, restando ivi tutte le arti della civiltá, non se ne smarrirono, anzi se ne perpetuarono le memorie. Onde prestamente nacque e restò ferma tra caldei, e, per la vicinanza, prestamente s’introdusse nella posteritá di Cam, altro figliuol di Noè, nella Siria e nell’Egitto, la forma del governo monarchico, nel qual senso Tacito disse «suetum regibus Orientem». E vi potè presta nascere una spezie di divinazione, detta «magia», quantunque falsa, certamente piú dotta degli auspici che usaron gli occidentali, la quale, altrimenti, arebbe avuto di bisogno una lunga serie di secoli di osservazioni per esser ridotta in iscienza. Ma Iafet, terzo figliuolo di Noè, che venne exlege nel lontano Occidente, spogliandosi della vera religione, onde fu creduto Giapeto, fece che la sua posteritá divenisse a poco a poco empia affatto e perciò ignorantissima e quasi di bruti.

Si riparti la terra tra’ figliuoli di Noè negli anni del mondo 1656. Roma è fondata agli anni 3250. Sará il tratto, dunque, del tempo oscuro d’Italia anni 1594.

Adunque, questi uomini exlegi ed empi, andando vagabondi, dove lor portava il talento, per questa gran selva del mondo, perduta ogni umanitá, con lingua incerta, sciolti in una brutta e incerta e, perché incerta, spesso nefaria libidine, e marcendo nell’ozio, cagionato dall’abbondanza de’ frutti che dava lor la natura, a guisa di fiere, tutti soli, non riconoscevano i loro, i quali perciò lasciavano morti sopra la terra insepolti.

Pochi di miglior indole, in quell’ozio contemplando il cielo, dai moti degli astri il credettero animato e che parlasse co’ fulmini. Onde nella scienza augurale è il verbo «contemplari», derivato dalle regioni del cielo, che dicevano «tempia», che gli áuguri disegnavano per osservare onde fulminasse o volasser gli uccelli («contemplari» i greci dicono θεωρείν, «meditari deum»).

[Mostra] che costoro, credendo il cielo dio, vergognandosi della sfacciata venere in faccia del cielo (onde poi la puritá per far sacrificio fu detta «castitas»), perciò si ritirassero, presasi ognuno una donna, in luoghi dove non lucesse, detti «luci», non mai da’ latini nominati senza alcuna religione. E, per istar fermi ove avessero copia d’acqua, osservato che gli uccelli fanno i nidi presso a’ fonti, seguitarono la lor guida per lo piú nei monti[3], perché ivi scaturiscono per lo piú; e provenne la religione dell’acqua (ché i dèi stessi giurano per Stige, l’acqua profonda); e sí la natura gli fe’ trovare poi postati in luoghi forti, che dalla voce πηγή, «fons», «pagi» primamente furono detti.

Da’ greci Διός, da’ latini «Dius», come il mostra la voce «Diespiter», fu detto Giove; e’l cielo e tutto ciò che è del cielo, «Dium».

E, credendo gli uccelli animali celesti, da quelli fondarono la divinazione negli auspici. E si nacque tra essi prima di tutto il ius divino, che dissero da principio assolutamente «ius», come lo stesso narra Platone de’ greci, che lo dissero δίαϊον, e per bellezza di prononzia poi aggiunservi il κ e fecero δίκαιον: ma i latini meglio dissero «Ious», donde forse venne l’obliquo «Iovis». Ma, poi che nacque il ius umano, si diede al primo l’aggionto di «divino».

I poeti fanno di tutto ciò un carattere, Giove, e l’assegnano l’aquila e il fulmine, le due cose piú osservate nella loro divinitá; e i romani tutti gli uccelli grandi dissero «aquilas», quasi «aquilegas» (donde pruova avere avvuto il nome le prime leggi), e le stimarono i numi dell’imperio romano.

Quivi postati e fermi — onde forse fûr detti «heri», «signori», e forse indi fu detto «haereditas» ab «haerendo», che corrispondono al Teseo dei greci, detto a θέσει, «posizione» — ed usando con certe donne, e sole, sotto certa custodia, divennero certi padri; e s’inoltrò il certo con l’auttoritá economica, con la quale fondarono l’imperio paterno, onde i padri sono sommi nelle famiglie.

E pruova ch’ebbero ne’ figliuoli di famiglia il ius vitae et necis, gli tenevano per cosa sua — onde provenne la suitá — e per loro istrumenti animati negli acquisti; e tra le genti maggiori la patria potestá essere stata appunto quella ch’i romani poi dissero propia loro. E questi figliuoli furono i veri patrizi maiorum gentium, che «nomine possent ciere patrem», a’ quali rispondono gli εύπαθρίδαι degli antichissimi atteniesi.

Per tutto ciò credettero essi soli avere il connubio, che «est ius nubendi», perché essi soli eran certi non commettere nefario concubito; e gli auspici esser loro propi, perché presi nelle terre, che, di communi, fecero propie con occuparle e con lo starci lunghissimo tempo postati: onde poi l’usucapione restò appo tutte le nazioni modo d’acquistare il dominio de’ regni.

Quindi, riconoscendo i congionti, entrò fra essi la prima umanitá di umare o sepellire i lor morti, e, si, cominciò il ius umano. Onde tutte le nazioni tennero fermo sollennizzare cotanto le nozze e i mortori, perché queste due cose furono le prime basi delle republiche. Perché, facendo sacrifici a’ padri, che «parentalia» restaron detti, e distinguendo i tumuli co’ segni ch’or si tralascia di dire, e sepellendogli secondo l’ordine della mortalitá, vennero in notizia delle stirpi e de’ loro diramamenti, che sono le gentilitá e le agnazioni, che i poeti spiegarono co’ patronimici, che ritennero gli spartani nei loro Eraclidi, i romani piú felicemente distinsero co’ nomi e coi cognomi. E cosí stabilirono le genti maggiori, che sono le case divise in piú famiglie, e perciò restò tra’ patrici romani diligentissima cura de’ sacrifici familiari e gentileschi.

Ma, fermi ne’ luoghi occupati, non bastando loro de’ frutti della natura, perché si moltiplicarono, fu lor necessario coltivare le terre. E, non avendo ancor uso del ferro, si servirono del fuoco: onde poi l’acqua e ’l fuoco conservarono i romani per significare tutte le umane e divine cose. Cosi, dal fuoco sgregolato il terreno per seminarvi il farro (che anco dissero «ador» e «adur» da questo brugiamento, di cui poi si servirono ne’ lor sagrifici i romani, e ’l davano per premio a’ forti, e dissero «adorea» la gloria militare), poterono ararlo con curvi legni duri, come ancor fanno i villani nel terren molle. Quindi «urbs» detta ab «urbo», curvatura dell’aratro: da cui ogni termino designato «ara» detta, come la famosa «Ara de’ Fileni» appo Sallustio, e «hara» il chiuso de’ bestiami, onde fu detta «haruspicitia»; — il primo nome di cittá, che nacque nella Siria, fu Aram, con aggiungervi il proprio o innanzi o dopo; — tante cittá in geografia dette «are», e ancor oggi in Transilvania le «are de’ cicoli», popolo che vanta l’origine dagli antichissimi unni; — e appo latini quasi sempre «lucus» e «ara» unitamente si mentovano.

Costoro, dunque, eran gli ottimi, perché credeansi pii e, per la pietá, prudenti, stimando consigliarsi con gli dèi; temperati, perché contenti di una sola moglie; forti, ché domaron la terra, che dall’acqua ripullulava (che è forse l’idra di Ercole); e da questa ultima virtú detti «ottimi», perché appo gli antichi «fortus» diceasi «bonus», come appo greci αριστοι da Ἄρης}, «Mars», onde gli «areopagiti» detti, quasi senatori o, piú propriamente, paesani di Marte.

Questi [furon detti] «viri» da’ latini, a’ quali rispondono ἥρωες de’ greci, «figliuoli degli dèi», ché credevano i loro padri morti esser i dèi mani, che nelle XII Tavole sono chiamati «divi parentum» essi guerrieri: onde da’ romani i magistrati furon detti «viri» con l’aggiunta del numero, e furon detti i mariti «viri». E gli eroi appo l’antiche genti furon creduti di spezie diversa dagli uomini: la qual credenza ritennero i romani, perché i connubi de’ padri da non communicarsi alla plebe gli stessi parlatori del ius attico [col romano] concedono non esser venuti d’Atene; e i padri dicono contro la plebe, che gli domanda: «confundi iura gentium»; i consoli: «ferarum prope riftu vulgari concubitus plebis patrumque». Il qual luogo di Livio (libro quarto, sul principio), se è egli vero come lo è, conturba tutta la giurisprudenza, se non si legge con altro aspetto la storia romana.

Ma, col moltiplicarsi le famiglie e avanzandosi la coltura, vennero mancando agli exlegi de’ frutti spontanei, come lo mostrano venti popoli dentro venti miglia intorno Roma. Quindi i violenti ammazzavano i deboli per tôr loro i frutti raccolti e ardivano rubbare i colti dei forti altresí. Ma i forti, per difesa di quelli, non deboli dalla venere, anzi robusti per le fatighe del campo, gli ammazzavano; e cosí col sangue de’ violenti consecrarono le are: onde poi venne la santitá de’ muri.

Alla fama delle vittorie de’ forti — detta «cluer», ond’è «cluere», «esser chiaro per valor d’armi» e, que’ che lo sono, detti propriamente «incluti», poi «inclyti» — i deboli, infestati da’ violenti, ricorrevano a quest’are, che furono i primi asili delle genti, tra le quali gli ateniesi umanissimi ebbero la famosa Ara dei miseri. Questi furono ricevuti in protezione da’ forti, la quale fu detta «fides», onde sono «implorare fidem», «recipere in fidem», «implorar protezione», «ricevere sotto protezione». Ma, perché venivano in terre altrui, come nelle isolette giá occupate da’ padri veneti quei che dalle violenze di Attila fuggivano da terraferma, i forti imposer loro la legge che le coltivassero per gli «heri», per gli signori, ed essi vi sostentassero la vita, che voller salva. Che è la prima legge agraria, e, con questa, nacquero le clientele. E questo è il «vetus urbes condentium», non «consilium», come dice Livio, ma «ius». E i clienti, i «famuli», diedero ai patrimoni il nome di «famiglia», il cui principe «padre di famiglia» fu detto.

Questi forse se ne fuggivano contro la legge, ma mancipati erano col nervo, non v’essendo uso di fune, [ossia] ligati: il quale anche fu detto «fides»: onde restò poi a significare la corda della cetra. E questo fu il primo vocabolo dell’imperio, come restò «recipere in fidem», «recipere sub imperio». E ne furono liberati sulla fede dell’opere e dell’ossequio, e quindi incomincia il «ius nexi», come di feudi. E i figliuoli, per distinguersi da’ nexi, furono detti «liberi».

Ma i clienti, attediati finalmente di coltivar per altrui, si ammutinarono contro i forti, i quali, per resistergli, si unirono in ordine, e ’l piú feroce si fece lor capo; e, sí, dalla difesa nacque l’ordine, che fu poi detto «civile», sotto un capitano, detto, dal reggerlo, «re». Quelli, adunque, avviliti, si ritirarono altrove, donde si dovettero con qualche equa legge richiamare: e qui nacquero i legati e la santitá propria di quelli e delle leggi, che nell’opera si narra. La legge non dovette essere altra che i clienti coltivassero i campi, assegnati loro da’ forti, per sé e, sí, ne avessero il dominio bonitario o naturale, restando l’ottimo o civile appo i padri, e che il ius nexi per l’opere si cangiasse in ius nexi per lo tributo (donde è forse il detto «la decima d’Ercole»[4]), come per gli feudi ora l’omagio si paga in danaio; e, sí, restasse fermo l’ossequio verso ciascuno loro inclito. Onde Atta Clauso sotto Romolo se ne passò in Roma co’ suoi clienti; e le clientele di tal natura erano fin al tempo di Tacito fra’ Germani, che conservarono piú di tutte le altre nazioni i costumi dell’antichissime genti. Di che tre gravi pruove, per tacere l’altre, sono: che, inondando poi l’Europa, vi sparsero di nuovo

1. i duelli coi tornei,

2. l’insegne gentilizie, che non sono altro che nomi delle case scritti coi caratteri eroici,

3. e i feudi, che Grozio stima un nuovo ius gentium, che invero è l’antico con altri vocaboli: onde coloro che ne scrivono latinamente n’esprimono tutte le proprietá coi vocaboli delle clientele dall’auttore narrate.

Or qui, avvertendo i padri ch’era loro utile che la giusta forza di tôrre altrui la vita stasse tutta unita nell’ordine, perché col tim0r dell’ordine non si ammazzarono infino ad uno i signori, perché pochi, dalla moltitudine de’ clienti, ne l'investirono. E con la publica violenza nacquero le prime republiche, che sono forse le lire d’Orfeo e d’Anfione.

Di tutta questa narrazione i poeti ne fecero carattere Ercole, come da «cluer» «inclytus», cosí da Ἡρακλῆς, «gloria [di Giunone]», appellato: forse dall’ istessa origine donde ἥρως, cioè da Ἥρα, Giunone, dea dell’aria, dalla quale vengono gli auspici, e perciò dea de’ legittimi matrimoni, che con gli auspici i forti soli contraevano. Quindi tanti Ercoli numera la mitologia; ma niuno spiega le clientele meglio del gallico, che con le catene uscenti di bocca si trae dietro i nexi. Ercole fu finto sostenere il cielo, perché gli ottimi introdussero le false religioni; uccisor dell’idra, come si è detto. Sparta, celebre republica di ottimati, ritenne ne’ suoi signori il nome di Eraclidi, discendenti di Ercole. Ercole ordina i giuochi olimpici; e dall’olimpiade comincia il tempo istorico, perché la favola di Ercole, ben intesa, ce ne può dare i princípi. Teseo, grande imitator d’Ercole, detto «Hercules alter», non fu vero Ercole, perché non conservò, come l’Ercole degli spartani, il ius ottimo, ma il divulgò nella plebe e fondò republica popolare l’atteniese. Romolo, nel fondar Roma, consacra l’ara massima ad Ercole, e i romani lo prendono per dio de’ giuramenti.

Cosí investita della publica violenza la potestá civile, nacque la civile auttoritá, onde ella è somma nelle republiche; e la necessitá della forza passò in necessitá di civil ragione; e restarono certe imagini delle vere violenze. Perché la mancipazione, forma quasi di tutti gli atti legittimi, fu la civil consegna d’un nodo, segno che i fondi erano in dominio degli ottimi; la vindicazione una forza simulata; le condizioni, che, pruova essere state le antiche repressaglie, cangiate in condiczioni e denonzie; le usurpazioni, in discrete citazioni. E questo dice essere quelle che Giustiniano chiama, nel proemio delle Instituzioni, «antiqui iuris fabulas». Restarono perciò ferme le stipulazioni, che ben pruovano, per origine, l’antica semplicitá, come ben si osserva ne’ popoli rozzi una somma religione delle parole nelle promesse e ne’ giuramenti: onde furono i pur troppo miseri voti di Teseo ed Agamennone. E cosí le stipulazioni da se stesse introdussero appo tutti un ius civile antico, tutto rigore, come il fa vedere da quel di Sparta e di Roma. E questo fu il ius gentium, col quale si fondarono le genti minori, cioè i popoli, nel qual significato, per essemplo, si dice «gens romana»; e queste sono piú case divise in piú famiglie unite in una sola communitá: talché i popoli furono sul principio i soli signori, come oggi è la veneta Signoria.

Nella qual forma di republica, per natura della medesima, che nacque per difendersi dalla plebe, gli ottimati si conservarono arcana ed «in latenti», come dice Pomponio, la scienza delle divine ed umane cose, cioè delle leggi. Che è la sapienza eroica che Orazio dice, nell’Arte, essere stata la prima poesia, fondatrice delle republiche, perché essi, come soli l’introdussero, cosí soli avevano la scienza della lingua eroica, come tra’ caldei quella de’ caratteri magici, tra gli egizi quella de’ caratteri sacri, detti «ieroglifici».

Questa lingua eroica fu il fas delle genti, la lingua certa, perché lingua delle leggi, per la qual poi «genti» furon dette le intiere nazioni, che son piú popoli che parlano una lingua commune: le quali seconde lingue come nascessero, si narra nell’opera. Da ciò i romani dissero «fasti» i giorni ne’ quali si rendea ragione; e le formole con le quali si concepiva, gli antichi dissero «carmina». Essi ottimi erano i letterati della letteratura eroica, con che custodivano l’eroica sapienza, fondamento della quale era che gli animi umani fossero immortali: che è quasi una tradizione del genere umano, non istimando gli corpi, perché i corpi essi toccavano, ma le imagini de’ maggiori no. La quale è la teologia dei poeti, che descrivono le anime «imagines humanae maiorum».

Quindi stabilirono i romani per metafisica delle leggi la divisione delle cose in corporali ed incorporali, ché quelle si toccano, queste stan nell’intendimento: che pruova esser la filosofia propia della giurisprudenza romana. E procurarono i romani anche, al meglio che seppero, conservare l’eroica letteratura col definire dalla natura delle cose i vocaboli: che «testamentum», per essemplo, sia detto quasi «testatio mentis», non, come i grammatici, da «testamen» con quello allungamento di sillaba.

Mostra che, ritornando tra le civili potestá contese (perché tra i sommi ritorna il ius monastico) e i duelli (ché cosí dissero gli antichi romani le guerre), e conservando ciascun popolo le leggi delle clientele, e addottrinati da un ius civile commune, senza saputa l’un dell’altro (perché tardi s’introdussero gli ospizi), riconobbero fas delle genti:

1. la denonzia delle guerre,

2. che non possono farle se non le civili potestá,

3. la santitá de’ legati,

4. la sepoltura de’ morti,

5. la ragion delle repressaglie,

6. le mancipazioni l’insegnarono la giustizia delle occupazioni belliche,

7. le genti vinte non essere veri popoli, ma clienti, famuli del popolo vincitore, che la mansuetudine romana poi chiamò «socii»,

8. il dominio bonitario restar a’ vinti, l’ottimo passare a’ forti,

9. il ius nexi fu loro un abbozzo della schiavitú,

10. della manumissione,

11. del patronato con le sue propietá,

12. dell’assegnazione,

13. dell’opere,

14. dell’ossequio.

Con la fondazione delle republiche, finirono gli eroi della giusta forza privata, e cominciarono gli eroi della giusta forza publica, delle guerre, le quali, essendo piú strepitose, furono piú memorevoli, e diedero principio al tempo istorico de’ greci dalla guerra di Troia. Perché cominciò la poesia ad esser parte vera, parte favolosa, perché cominciò ad esser parte per necessitá, parte per diletto, il quale pur nasceva dalla natura degli uomini ingegnosi nell’ignoranza de’ generi. Onde in que’ rozzissimi tempi provenne Omero, gran padre delle poetiche invenzioni, che niuno altro mai del mondo dotto potè uguagliare, perché nel mondo de’ filosofi gli uomini s’avvezzarono a concepir le cose per generi e a parlarle per astratti.

Per tutto ciò ferma che il ius gentium, se si avesse a tradurre in greco con la sua propietá, s’avrebbe a dire δίκαιoν ἡρωϊκόν; ma i latini il dissero «ius optimum» in significazione di «ius fortissimum», onde poi restò fra’ romani in significazione di «ius certissimum».

Dopo nato l’uno e l’altro ius gentium, fondossi Roma, e Romolo, per lo ius ottimo, col quale fondolla, morto, fu riferito nel numero degli dèi. E si come il ius ottimo fu detto da Giove, che «I» s’appellava, questo da Quirino fu detto «quiritium», dall’asta, armadura degli eroi, che poi ritennero gli spartani, republica d’ottimati, e i romani, che usarono per propia armadura i pili, che erano aste piú gravi. Onde astata Minerva, che è la stessa che Bellona, carattere eroico dei padri, che sono la mente e il valor delle guerre. Talché «ius quiritium romanorum» è il ius de’romani astati, de’ romani armati d’asta, de’ padri uniti in ordine, a’ quali principalmente ne’ comizi s’indrizzava il titolo della maestá romana, appellandogli «quirites», che fuori dell’adunanze non si dava ad alcuno.

Servio Tullio ne tolse a’ padri il ius nexi per lo tributo, e ordinò che si pagasse da’ clienti, e da essi il censo. Ma i padri, indi in poi, con gravar di usure la plebe, in un certo modo il ritennero, e ben tardi, con la legge delle XII Tavole, glielo communicarono, restando in piedi il ius nexi per l’usura, il quale finalmente si sciolse con la legge Petelia, per la quale restò solo per la «noxa», over danno.

L’acre custodia, dunque, la qual pur narra l’istoria romana che i padri ebbero del dominio de’ campi romani, e quindi degli auspici, de’ connubi, de’ magistrati, de’ sacerdozi, contro la plebe, le quali cose tutte sono come parti del ius ottimo e, in conseguenza, del ius quiritium, mostra che fu la cagione della publica virtú e giustizia e, ’n conseguenza, della grandezza romana, e che soli i romani fondassero la giurisprudenza nata dalla custodia delle forinole dell’azioni, che perciò furono dette in spezie «ius civile», come pur l’avvertisce Pomponio, perché tutto il resto fu ius gentium che i romani fecero civile lor propio, non con la invenzione, ma con la custodia.

La qual sola ha potuto dimostrare la vera origine e ’l progresso non interrotto di tutta la storia profana. Ché prima di tutti fu ’l Caos o confusimi degli exlegi, donde usciron gli eroi e gli uomini; e gli eroi, di origine celeste, perché provennero dagli auspici, che fondarono le false religioni, e, sí, dalla terra nacquero i dèi; gli eroi cogli auspici si fecero padri, onde sono i patrizi, e da questi i signori; come dagli uomini i clienti provennero; che, uniti in due communitá, furono ottimati e plebi nelle republiche aristocratiche; finalmente gl’imperi, fondati con la virtú di pochi, o si diffusero in tutti nelle republiche libere, o si restrinsero ad uno nelle monarchiche.

Su tai principi fa vedere in tutte le loro piú importanti parti e l’istoria romana con l’aspetto delle leggi e la giurisprudenza con quello degli ordini della republica, la quale, con le sue mutazioni mescolando poi con l’ordine civile, ch’è propio degli ottimati, l’ordine naturale, propio della libertá e del regno, fece s+ che, fin dalla republica libera prendendo vigore il ius pretorio, che con una riverenza del ius civile seguiva l’ordine naturale, fusse quasi un traduce, per lo quale passò il ius civile antico, rigido circa la legge delle XII Tavole, al nuovo delle constituzioni imperiali, tutto naturale equitá. Cosí disponendo le cose degli imperi la providenza divina a’ suoi eterni disegni, che, quando Costantino dasse la pace alla Chiesa, tutto il mondo fosse governato da un imperio il quale si regolasse da un dritto giá compatibile con la religion cristiana, e la giurisprudenza prendesse da quella il principio De summa Trinitate et fide catholica, il quale è principio e fine della giurisprudenza e della religione. E da una scienza, nella quale costií tutta l’erudizione divina ed umana, dimostrata sui principi della cristiana giurisprudenza, si fermi nel giurisconsulto la costanza di operar giustamente.



  1. Ciò si è emendato nel corso dell’opera al capitolo XII (Dell’origine della poesia), al libro II, parte II, dove si pruova che, non la riflessione, ma la natura portò i primi uomini al canto, quando cominciarono a fondare l'umanitá: onde poi avvenne che, non vi essendo la scrittura, i posteri col canto conservassero a memoria le cose degli antenati [nota manoscritta del Vico].
  2. Ciò sta pienamente pruovato nel libro II, parte II, capitolo IV e nelle Notae [nota manoscritta del Vico].
  3. E ciò anco si corregge nelle Notae al libro primo, cap. CXLIX, [g§ 2], e nel corso dell’opera nel libro II, parte II, capitolo XX, al paragrafo De matrimoniis, dove si dimostra che i primi uomini fondarono l’umanitá senza alcuna riflessione, ma, guidati dagli auspici, furono portad a piantarsi in luoghi alti vicino a’ fonti [nota manoscritta del Vico].
  4. Questa breve parentesi sulla «decima. d’Èrcole» è postilla autografa aggiunta dal Vico in un solo dei due esemplari conosciuti della Sinopsi [Ed.].