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EPISTOLARUM QUAE SUPERSUNT



che tu abbi penna piú agevole ad ogni cosa che non ho io: volesti piacere al tuo Mecenate; il che forse avere cosí fatto non è da dannare, poi che se’ al suo servigio obligato, con ciò sia cosa che io, per non fare quello, mi sia partito. Ma dimmi: può ragionevolmente essere detto partirsi di subito ed arrappare la fuga colui che, domandata licenzia, saluta gli amici? ancora, dopo alquanti dí, ordinare le sue somette e quelle mandare innanzi, è partire di subito? Coloro che fuggono sono usati non salutare niuno, occupazioni fingere in quello luogo donde partire si debbano, con faccia velata e nell’oscura notte entrare in cammino. Ma io non feci cosí. Piú di innanzi dissi il partire mio; e se alcuno altro non avessi salutato, te almeno mi ricorda avere salutato, e non di notte e con velata faccia salii a cavallo: giá saliva il sole all’ora di terza, quando di publico e di luogo usato da’ mercatanti con aperto viso mi partii, e preso il cammino con piú compagni trovati conoscenti e con lento passo, infino ad Aversa me n’andai, e quivi fui due dí con uno amico, non nascondendomi ma palesemente; di quindi ripigliando il cammino, e con ciò fusse cosa che io fussi pervenuto a Sulmona, da Barbato nostro un dí con grandissima letizia della mente mia fui ritenuto e maravigliosamente onorato; e di quindi partito, dopo il secondo dí uscii del regno. È questo modo de’ fuggitivi? Ma perché doveva io fuggire? Aveva io posto innanzi a Tieste, mangiando a mensa, i figliuoli tagliati e cotti? aveva io nascosamente di notte a’ greci aperte le porti di Troia? aveva io nel vaso d’oro pórto il veleno ad Alessandro di Macedonia domatore d’Asia? o aveva fatta alcuna altra cosa fuori di regola? Non veramente. Dal sozzo giogo aveva sottratto il collo. Qui che è di male? Volesse Dio che tu conoscessi l’errore tuo, e se altrimenti non ti fusse conceduta la fuga, arrapperesti quella. Che animo fusse verso di me al tuo Grande, mi curo poco io, usando la parola di Terrenzio: «Tanto pregio non compero la speranza». Se io veggo non avere fatto a coloro a cui egli era tenuto, non debbo credere che egli il facesse a me. Siensi sue le ricchezze che e’ possiede, sua sia la gloria trovata: ma mia sia la santa libertá. A me è piú d’onesta letizia nella mia povera casetta che a lui non è nella sua casa d’oro. Certo l’avere adirato il Grande confesso non essere senno..... del partito, essendo servata la libertá: ma tolga Dio che, posta giú la libertá, io dia opera all’ira sua! Io non ho operato di meritarla. Egli è signore della sua indegnazione e può come gli pare inverso ciascuno a diritto ed a torto sfavillare: contro