IV. Il De constantia | VI. Della presente edizione |
V
GLI ESEMPLARI POSTILLATI E LE «NOTAE»
Ingegno eminentemente autocritico, il Vico non era uomo che, compiuta l’opera sua, potesse starsene a vagheggiarla con ozioso e vanitoso compiacimento. Per contrario, se n’era appena distaccato, e giá in lui, all’ebrezza gioiosa o «divin piacere»[1]
del momento creativo, sottentrava un senso come di scontentezza e quasi di diffidenza verso se medesimo. Da che, da un lato, la brama intensa, ora che l’aveva innanzi tutta stampata, di ritornare sulla sua fatica con animo piú calmo; e, dall’altro, il fermo proposito di considerarla, non piú sua, anzi quasi mero documento d’una posizione mentale giá acquisita alla storia, e intorno al quale, pertanto, gl’incombeva il dovere di esercitare un continuo e serrato lavorio critico, in guisa da procurarsi, qualora la Provvidenza avesse voluto continuare ad aiutarlo, nuovi stimoli per un nuovo e, possibilmente, piú poderoso sforzo di pensiero.
Un primo saggio di codesta incessante e sempre insoddisfatta autocritica, che sará, sino alla morte, la nota dominante della vita mentale del Vico, si trova giá negli Omissa aliquot e negli Aliquot emendata aggiunti in calce al De constantia: primo nucleo delle future Notae e rifuso poi in queste. Ma, poiché il suo stato d’animo era quello che s’è procurato di descrivere, non era assolutamente possibile che quegli omissa e quegli emendata restassero circoscritti in confini cosí angusti. Era inevitabile, per contrario, che essi crescessero di numero e di estensione, alternandosi con correzioni di meri errori tipografici e reintegrazioni di piccoli brani saltati dallo stampatore, via via che l’autore, non senza tornare due, tre, cinque, dieci volte sui propri passi, rivedeva parola per parola quel testo giá tanto torturato.
Per un certo tempo furono sufficienti allo scopo i margini dei due volumi a stampa: per il primo, giá abbastanza lontano dal Vico e a lui men caro, quelli, piú angusti, d’un esemplare in carta comune; per il secondo, pel quale giunte e correzioni non potevano non essere potenziate, quelli, amplissimi, d’un esemplare in carta distinta. Che anzi, sin dal bel principio, il Vico, sempre che gli capitasse di donare il libro a studiosi di riguardo, riprese a fare ciò che aveva fatto pel passato nei rispetti del De studiorum ratione, del De antiquissima e delle Risposte[2] ossia trasferire nell’esemplare donato le postille marginali giá segnate in quello serbato per suo uso, e magari aggiungervene altre (che, a loro volta, trascriveva nel proprio). Cosí appare giá dall’esemplare posseduto dalla Casanatense di Roina[3], alla quale, e, per essa, al suo prefetto fra Tommaso Maria Minorelli, pervenne nella prima quindicina del settembre 1721 per dono dell’autore[4]. Cosí è apparso da qualche altro esemplare, indicato, in questi ultimi anni, nei cataloghi di librerie antiquarie[5]. E cosí certamente apparirá il giorno che verranno eventualmente fuori i due esemplari inviati rispettivamente a Roma al dotto archeologo napoletano, nonché zio d’un discepolo del Vico, Biagio Garofalo (settembre 1721) [6], e ad Amsterdam a Giovanni Ledere (febbraio 1722)[7].
Ben presto, per altro, non bastando piú i margini, bisognò ricorrere a fogli manoscritti o incollati ai margini o intercalati: quei fogli, appunto, che s’incontrano di quando in quando nel magnifico esemplare postillato, che, pel tramite dell’anzidetto abate Garofalo — a cui frequenti gite a Vienna avevano procurato qualche dimestichezza coi personaggi piú cospicui della corte di Carlo VI — fu inviato, due o tre mesi prima del 25 luglio 1722 e con bella dedica epigraficanota, al principe Eugenio di Savoianota. Da ciò si dovrebbe presumere non solo che il Vico serbasse copia di quei fogli manoscritti, ma che intercalasse siffatta copia nell’altro esemplare postillato di cui si serviva per suo uso e che, come si direbbe oggi, teneva al corrente. Ma, se la prima cosa è indubitatanota, la seconda è alquanto incerta, giacché, oggi come oggi, nell’esemplare, per dir cosí, vichiano, ossia, come si vedrá, in quello posseduto dalla Nazionale di Napoli, quei particolari fogli intercalati mancano del tutto. Forse il Vico li distrusse dopo che fece rilegare nel medesimo volume anche il testo a stampa delle Notae, che li rendeva inutili. Fors’anche preferí tenerli a parte per lavorarvi intorno con maggiore agio. Certo è, a ogni modo, che egli aveva quasi appena fatto partire per Vienna l’esemplare destinato al principe Eugenio, e giá accettava l’eccellente consiglio, datogli da Giambattista Filomarino, di smettere dal tempestare di postille e fogli intercalati esemplari su esemplari del Diritto universale, e raccogliere invece quel materiale, e quant’altro credesse ancora emendare o aggiungere, in un terzo volume supplementare a stampa.
Chi era mai codesto Giambattista Filomarino, il cui nome, seguito da tanti e tanto fragorosi titoli nobiliari, appare nel frontespizio delle Notae e al quale si tributano elogi cosí fervidi nella dedica soggiunta a quel frontespizio?nota. Era un giovane e ricco signore napoletano, possessore e abitatore d’uno dei palazzi piú sontuosi della cittá: un palazzo che, nel Cinquecento, quando apparteneva ai Sanseverino di Bisignano, aveva avuto ospite l’imperatore Carlo V, e nella cui lunga fuga di camere, divenute, due secoli dopo, quasi museo ricchissimo di cose d’arte, s’era aggirato per lunghi anni (su per giú dal 1710), quell’«imperatore del pensiero» che fu Giambattista Viconota. il quale, precettore, «ab [8] [9] [10] [11] [12] ineunte adolescentia», del padron di casa, restato sin dall’infanzia orfano di padre, lo aveva erudito via via nella grammatica, nell’umanitá e nella filosofia, non senza avvalersi poi della cooperazione dei piú reputati versificatori napoletani e di altre parti d’Italia per farsi raccoglitore e curatore di un’elegante miscellanea poetica, allorché quel suo discepolo prediletto passò a nozze, precisamente nel 1721, con Maria Vittoria Caracciolo dei marchesi di Sant’Eramo[13]. Che anzi, quasi ricordo delle sue ultime lezioni di filosofia, proprio in quella miscellanea il medesimo Vico aveva inserito, col titolo Giunone in danza, un lungo polimetro[14], nel quale, anticipando in qualche guisa i Canones mythologici delle future Notae[15], aveva esibito una nuova interpretazione dei miti relativi ai dodici dei maiorum gentium, ispirata, non piú al criterio vossiano, ossia naturalistico, a cui, pur con notevoli varianti, egli era restato ancora aderente nel De constantia, bensí a un criterio rigidamente storico e sociale, per cui quei miti diventavano nient’altro che storie ingenue e immaginose dei primi passi compiuti dall’uomo nel cammino della civiltá e, in pari tempo, delle fiere lotte sociali che, sin da allora, come sempre e dovunque, avevano accompagnato quel progresso civile. Né, d’altra parte, sembra che il discepolo fosse indegno dell’affetto e della stima di tanto maestro. A differenza di altri giovinetti di nobili famiglie affidati alle cure del Vico e che, sottrattisi appena alla ferula del pedagogo, preferivano a quella di Platone, Tacito, Bacone e Grozio la compagnia di automedonti e di etère, il Filomarino non doveva amare l’ozio, dal momento che documenti contemporanei lo mostrano partecipe, nella misura limitata allora possibile, alla vita politica cittadina e personaggio influente alla corte del viceré D’Harrach e poi del re Carlo di Borbone, che dal 1738 al 1740 gli affidò la piú importante delle ambasciate napoletane, ossia quella a Madrid[16]. Qualche interesse per gli studi doveva pur nutrire, giacché, fresco sposo, aveva radunato nel palazzo anzidetto «complures nobilissimi adolescentes virique principes», a lui congiunti da amicizia o parentela, perché ascoltassero anch’essi dalla viva voce del Vico una lezione intorno a quegli «humanitatis principia», ch’erano stati svolti nel Diritto universale[17]. Né per ultimo doveva difettare di generosa liberalitá, se, come tutto fa supporre, nel dare al Vico il consiglio ricordato di sopra, volle anche lui, come giá, durante l’adolescenza del filosofo, l’insegnante di diritto Felice Aquadia e l’avvocato Nicola Maria Giannettasio[18], aggiungere al «ben detto» il «ben fatto», ossia far comprendere che avrebbe accettato ben volentieri la dedica di quel volume supplementare, nella quale accettazione, giusta il costume del tempo[19], era implicita la promessa (che, nel caso, fu certamente mantenuta) di addossarsi le spese di stampa.
Checché sia di quest’ultimo particolare, il Vico, nell’accingersi, nell’aprile o maggio 1722, al nuovo lavoro, non si contentò al certo di trascrivere le postille o notae raccolte sin allora e, via via che le trascriveva, di emendarle, modificarle, ampliarle e, al tempo medesimo, di sopprimerne quattro o cinque (quelle che nella presente edizione sono poste tra parentesi quadre) e di aggiungerne altre molte (tutte quelle a cui, nel testo a stampa, non è preposto l’asterisco), nuove bensí, ma serbanti sempre, per estensione e argomento, il carattere di piccole giunte e correzioni a punti particolari del De uno e del De constantia. Volle, invece, poiché doveva ripresentarsi al pubblico, armarsi di nuova preparazione, e segnatamente rileggere i poemi omerici «al lume dei nuovi principi di filologia» posti nel De constantia, e rimeditare su quei nuovi canoni mitologici e annesse interpretazioni dei miti relativi agli dei maiorum gentium. canoni e interpretazioni di cui la Giunone in danza non aveva esibito se non un abbozzo[20]. Risultato di codeste nuove letture e meditazioni fu un progresso cosí notevole di pensiero, che il lavoro a cui attendeva, pur continuando a essere, nelle intenzioni dell’autore e nella veste estrinseca, mera accessione al Diritto universale, si trasformò, nell’intrinseco, in un’opera per sé stante e molto piú vicina, quanto a orientamento generale, alla futura Scienza nuova prima che non, malgrado i suoi pochi mesi di vita, al De constantia.
Stando così le cose, sarebbe stato certamente meglio che il Vico, risolvendosi sin da allora a ciò che pur fece l’anno dopo, avesse riscritto da cima a fondo l’intero Diritto universale. Senonché un’idea siffatta, facile a sorgere nella mente di noi posteri, che conosciamo intera la sua produzione scientifica posteriore, poteva balenare e, comunque, sorridere tanto meno a lui, in quanto avrebbe importato il coraggio, ch’egli non avrá se non nel 1731, di rifiutare un lavoro che gli era costato il meglio di se medesimo. Ricorse pertanto alla medesima soluzione ibrida che caratterizzerá i trapassi così dalla Scienza nuova prima (1725) alla seconda (1730), come dalla seconda all’ultima (1744), e rappresentati il primo dal grosso manoscritto delle disperse Annotazioni alla Scienza nuova prima (1727-9), l’altro — prescindendo dalle brevi Correzioni, miglioramenti e aggiunte prime e seconde (1730) — dai due non brevi manoscritti delle esistenti Correzioni, miglioramenti e aggiunte terze e quarte (1731-3)[21]. Lasciò, cioè, in piedi il De uno e il De constantia, né tolse alle Notae l’aspetto estrinseco di mere giunte e correzioni al giá detto: tuttavia, da un lato, procurò, non senza qualche distrazione, di adattare al suo nuovo orientamento quelle giá pronte, e, dall’altro, prendendo piú pretesto che occasione da questa o quella frase del Diritto universale, non si contentò soltanto di aggiungerne molte altre nuove, nelle quali si risente, attraverso i continui riferimenti omerici, la sua rilettura dell’Iliade e dell’Odissea, ma intercalò, alle note propriamente dette una dozzina di escorsi, i quali, sia per estensione (taluni, lunghi decine di pagine, sono a dirittura suddivisi in capitoli e paragrafi), sia per argomento (vale a dire perché, non semplici illustrazioni di punti particolari, ma nuovo svolgimento di principi fondamentali dell’opera), non sono piú mere Notae, ma vere e proprie Dissertationes. Sorsero cosí quelle, a volte bellissime, sull’origine dei feudi, sull’inospitalitá dei popoli primitivi, sulla natura eroica o vero eroismo, sui re e sui regni primitivi e via enumerando — questioni tutte che riappariranno, con piú ricchi svolgimenti, nell’ultima Scienza nuova; — e sorsero segnatamente le due, piú lunghe e mirabili, sulla poesia omerica e sui canoni mitologici per la ricostruzione della storia del tempo oscuro: quella, rifusa, con tagli e ampliamenti, nel terzo libro della seconda Scienza nuova, ossia nella Discoverta del vero Omero; questa, larghissimamente amplificata nel secondo, vale a dire nella Sapienza poetica.
Che per apprestare il manoscritto di codesto nuovo lavoro fossero sufficienti al Vico poco piú di una ventina di giorni non maraviglierá chi ricordi che a scrivere da cima a fondo la prima Scienza nuova gliene bastarono poco piú di trenta, e poco piú di cento per mettere insieme le circa cinquecento fittissime pagine della seconda. Comunque, officiati il 5 e 6 luglio 1722 la Curia arcivescovile e il Collaterale perché gli assegnassero quali censori i soliti Torno e Galizia, si diè a stampare, nello stesso formato del Diritto universale, ma in carattere piú piccolo, questo volume supplementare di Notae. Il quale, riuscitogli di ottantaquattro pagine numerate, piú sei innumerate in principio — consacrate al frontespizio, alla dedica e a un errata-corrige di errori meramente tipografici dei primi due volumi — fu pubblicato dopo il 13 agosto, data dell’imprimatur del Collaterale[22].
Una sola correzione autografa l’autore appose nei margini dell’esemplare in carta distinta che tenne per suo uso[23]: temperanza che si spiega quando si pensi al gran da fare che gli diè, di lí a poco, il suo disgraziato concorso universitario del 1723[24], e alla circostanza che, subito dopo, egli si consacrò toto animo alla Scienza nuova in forma negativa, che annullava di fatto Sinopsi, De uno, De constantia e Notae[25]. Pure, prima di separarsi definitivamente da un lavoro che, nelle sue varie redazioni (dal commento a Grozio alla Notae), gli aveva preso sei anni d’intensissima vita spirituale (1717-22), volle — mi si consenta l’immagine funebre — comporlo in decorosa sepoltura, aggiungendo alla Sinopsi una carta manoscritta di «appendice di correzioni» o, meglio, di adattamenti alle nuove vedute delle Notae;[26] aggiungendo nei margini del De uno e del De constantia qualche altra correzioncella tipografica o di mera forma, che si distingue da quelle precedenti alla stampa delle Notae dal diverso colore dell’inchiostro; aggiungendo a tutto il De uno, ma soltanto a una piccola parte del De constantia, rimandi marginali ai luoghi correlativi delle Notae; aggiungendo alle Censurae extra ordinem quella che nelle sue intenzioni sarebbe dovuta essere una nuova serie di Aliae virorum clarissimorum epistolae ineditae, ma che in effetti si limitò alla sola lettera del Garofalo giá mentovata; aggiungendo, infine, otto facciate autografe di Mendorum ab typis literariis emendationes, in cui, non senza qualche omissione dovuta a distrazione e qualche lapsus proprio nell’emendazione dell’errore antico, rifuse, con molte aggiunte, cosí l’errata-corrige a stampa premesso alle Notae, come le correzioni a penna segnate nei margini dei due volumi. Per ultimo, fatto rilegare tutto codesto materiale in un unico tomo, lo tenne presso di sé sino al 1735: anno in cui, come curò d’avvertire egli stesso in un’ultima postilla autografa, lo donò in Napoli a un F. A. Gervasi. Dal Gervasi il volume o piuttosto codice — tanto piú prezioso in quanto, come ognun vede, rappresenta l’ultima volontá dell’autore — passò, attraverso non si sa quali e quanti possessori intermedi, a un Giuseppe Solari, che nel luglio 1872, secondo è detto in altra postilla di mano aliena, lo vendè, in Fermo, al marchese Filippo Raffaelli: ultimo possessore privato conosciuto, prima che, in tempo incerto, il codice entrasse a far parte dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli[27].
Notae
- ↑ Scienza nuova seconda, ediz. Nicolini2 capov. 345 (prima parte del IV volume della presente raccolta delle Opere, p. 127).
- ↑ Cfr. la Nota bibliografica al primo volume della presente raccolta delle Opere.
- ↑ Reca la segnatura H. XIII. 13.
- ↑ Carteggio, pp. 171-2, 176, 283.
- ↑ Croce, Quarto supplemento alla «Bibliografia vichiana» (Napoli, 1927), pp. 6-7.
- ↑ Cfr. F. Nicolini, Una lettera semi-inedita a Giambattista Vico (Napoli, 1935) e Due lettere inedite di Giambattista Vico al principe Eugenio di Savoia (Napoli, 1937): opuscoli estratti dall’Archivio storico per le provincie napoletane (voll. LX e LXII).
- ↑ Si veda sopra p. 776.
- ↑ Vedila in Carteggio, ed. cit., p. 176, e cfr., per la data esatta, il secondo dei miei opuscoli ora citati.
- ↑ Extat nella Biblioteca nazionale di Vienna, ove reca la segnatura B. E. VIII. M. 9. Una minuta descrizione di esso, una con la trascrizione diplomatica nella collectio viciana del Croce.
- ↑ Lo asserisce implicitamente il Vico stesso nel testo a stampa delle Notae, ove sono segnate con un asterisco quelle contenute giá nell’esemplare inviato al principe Eugenio.
- ↑ Cfr. presente edizione, pp. 591-5.
- ↑ Croce, Un angolo di Napoli (in Storie e leggende napoletane2 Bari, terza, 1923), p. 1 sgg., che dá una compiuta storia del palazzo (sito in via Trinitá Maggiore, n. 12). Per qualche altra notiziola, F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di Pietro Summonte a Marcantonio Michiel (Napoli, Ricciardi, 1925).
- ↑ Su quella miscellanea vedere Autobiografia, ed. cit., p. 59, e cfr. F. Nicolini, Appendice al secondo supplemento della Bibliografia vichiana di B. Croce (Napoli, 1910), pp. 48-50.
- ↑ Vedilo in Poesie varie, ed. cit., pp. 318-45.
- ↑ Cfr. presente edizione, p. 739 sgg.
- ↑ Per maggiori ragguagli e per la documentazione cfr. F. Nicolini, Giambattista Vico epigrafista cit., pp. 11-3, 60.
- ↑ Si veda sopra p. 593.
- ↑ Autobiografia, pp. 6-7.
- ↑ Su questo punto cfr., nella presente raccolta delle Opere, vol. III, p. 328.
- ↑ Autobiografia, p. 59.
- ↑ Cfr. la Nota bibliografica al IV volume della presente raccolta delle Opere.
- ↑ Presente edizione, pp. 759-60.
- ↑ Si veda sopra p. 749. nota 1.
- ↑ Autobiografia, p. 44 sgg.
- ↑ Volume terzo della premute raccolta delle Opere, pp. 326 7.
- ↑ Presente edizione, pp. 7 e 11.
- ↑ Reca la segnatura XIII. B. 62.